È sempre suggestivo immaginare l’incontro reale tra due personaggi storici, come abbiamo già visto quando Marconi e Kipling cenarono insieme, o con l’amicizia tra Henry Ford e Thomas Edison. In questo caso, documentato dallo stesso protagonista, fu Edmondo de Amicis ad andare a trovare Jules Verne, mito indiscusso dei romanzi per ragazzi. Ci andò circa nel 1895, accompagnato dai due figli. In quel periodo de Amicis era già famoso per il successo del suo grande libro, Cuore, e di tanti altri scritti di tipo giornalistico, oltre al suo romanzo socialista Primo Maggio (recentemente ripubblicato da Xedizioni). Di Verne è inutile parlare: ciascuno di noi conserva il ricordo speciale di un particolare romanzo, sia di fantascienza sia di avventure, che ha popolato di immagini fantastiche la nostra infanzia. Dunque i due si incontrano a casa di Verne e signora, e quello che segue è il resoconto di questa visita, che parte in treno dalla Gare du Nord di Parigi. Testo pubblicato per la prima volta in “Nuova Antologia”, n. 150, Novembre 1896, e successivamente in altre raccolte, anche recentemente in rete. Ve lo offriamo sperando che susciti anche in voi l’effetto di essere presenti a quell’incontro, grazie alla penna di de Amicis. (Zero37, agosto 2022)
Andammo a trovare Giulio Verne ad Amiens dove sta tutto l’anno, a due ore e mezzo di strada ferrata da Parigi.
Una lettera da lui scritta al mio buon amico Caponi mi accertava che la sua accoglienza sarebbe stata più che cortese, e questa certezza faceva più vivo il mio desiderio antico, e quello dei due cari giovanotti che erano con me, di conoscere di persona l’autore ammirato e amato dei Viaggi Straordinari; il quale, fuori dei suoi libri, ci era del tutto sconosciuto, poiché non avevamo mai visto neppure un ritratto in fotografia. Parlavamo appunto durante il viaggio, del caso singolare, che uno scrittore francese vivente e così celebre si sapesse così poco, quando del carattere e della vita di quasi tutti gli altri si avevano notizie continue e minute e anche indiscrete, come dei re e degli imperatori; e la nostra curiosità era non poco accresciuta da questo mistero.
Picchiammo alla porta di una palazzina, posta all’imboccatura di una strada solitaria, in un quartiere signorile, che pareva disabitato. Ci aprì una donna, che ci fece attraversare un piccolo giardino ed entrare in un’ampia sala a piano terreno, piena di luce; e subito comparve Jules Verne, con il viso sorridente e con le mani tese.
Se, incontrandolo senza conoscerlo, mi avessero chiesto di indovinare la sua condizione, avrei detto: un generale in riposo, o un professore di fisica e matematica, o un capo di divisione di Ministero: non un artista. Non dimostrava gli ottant’anni che aveva, aveva un po’ la travatura di membra di Giuseppe Verdi, un viso grave e buono, nessuna vivacità artistica nello sguardo e nella parola, maniere semplicissime, l’impronta di una grande sincerità in ogni manifestazione, fosse pure la più sfuggevole del sentimento, del pensiero, del linguaggio o degli atteggiamenti, e il suo modo di vestire era quello di un uomo per cui non conta assolutamente nulla l’apparire.
Il mio primo senso, dopo il piacere di vederlo, fu di stupore. Fuorché nella bontà dell’aspetto e nell’affabilità delle maniere non riconoscevo nulla di comune tra il Verne che mi stava davanti e quello che era prima nella mia immaginazione. E mi tornarono in mente le parole che mi aveva detto, tra il faceto e il serio, un mio amico di Torino: Lei va a vedere Jules Verne? Ma se Jules Verne non esiste! Non sa che i Viaggi Straordinari sono di una società di scrittori che hanno preso uno pseudonimo collettivo? Crebbe il mio stupore quando, condotto a parlare delle sue opere, ne parlò con un fare quasi distratto, come avrebbe fatto delle opere di un altro o, meglio, come di cose in cui non entrasse alcun merito suo, di una collezione di stampe e monete, che egli avesse acquistato, e delle quali s’occupasse più per bisogno di fare qualche cosa che per passione dell’arte. Tentò più volte, in principio, di stornare il discorso da se stesso per volgerlo cortesemente sopra un’altra persona, e, non riuscendogli, lo fece cadere con garbo amorevole sui suoi due giovani visitatori; ma fu pure forzato, in fine, da una domanda diretta a dire del suo modo di concepire e di scrivere, e lo fece in poche parole, con una grande semplicità e una chiarezza ammirabile.
All’opposto di quel che io credevo, egli non si mette a fare ricerche intorno ad uno o a più paesi dopo aver immaginato i personaggi e i fatti del romanzo che vi deve svolgere: fa invece, da prima, molte letture storiche e geografiche relative ai paesi stessi come se di questi non avesse a fare altro che una descrizione ampia e minuta: i personaggi, i fatti principali e gli episodi del romanzo gli sorgono in mente durante la lettura, ispirati dalla lettura medesima, nella quale egli non procede con la curiosità circoscritta e con la fretta impaziente di un cercatore di notizie utili ad altro fine, ma con l’amore e col diletto di un appassionato di quegli studi. Quanto alle cognizioni svariate, che gli occorrono, e che nei suoi romanzi sono profuse, di fisica, di astronomia, di storia naturale, da molto tempo non ha più bisogno di cercarle nelle opere di scienza, che furono, fino dalla sua prima gioventù, la sua lettura prediletta, poiché o le ha nella memoria o le ritrova in una raccolta enorme di appunti che egli ha sempre preso e va prendendo continuamente da libri, riviste e giornali, non trascurando niente di attinente a viaggi, a scoperte, a fenomeni, ad avvenimenti e a personaggi singolari, che creda gli possano essere utili in qualsiasi modo per i suoi lavori futuri. E riguardo alla scelta dei paesi, che devono essere il campo dei suoi romanzi, guidato da un concetto che ero assai lontano dall’immaginare. Si è proposto di descrivere coi Viaggi Straordinari tutta la Terra: procede quindi di regione in regione, secondo un certo ordine prestabilito, non ritornando che per necessità, e il più brevemente possibile, nei paesi che ha già percorsi. Molte regioni gli avanzano e ha fatto il conto dei romanzi che deve scrivere ancora per colorare intero il suo disegno. Ne avrò il tempo? disse sorridendo. Lo spera, come lo speriamo tutti, e intanto non perde una giornata. Scrive, di regola, due romanzi l’anno, dandone soltanto uno alla stampa perché le pubblicazioni non si affollino; di modo che ne ha sempre parecchi nel cassetto, che aspettano. Va a dormire quasi ogni sera alle otto; la mattina alle quattro è già sveglio e lavora fino a mezzogiorno. Così fece sempre, fuor che quando viaggiava; così continuerà a fare finché potrà.
“Ho bisogno di lavorare” concluse. “Il lavoro è diventato per me come una funzione vitale. Se non lavoro non mi sembra di vivere”.
Ebbi in quel momento una sorpresa gradita: comparve la signora Verne. Immaginatevi una corona di bei capelli bianchi sopra un viso rotondo e roseo, due occhi grandi e chiari che sorridono sempre, e una bocca giovanile piena di bontà e di dolcezza: ne avrete il ritratto abbozzato. Alla semplicità di modi del marito aggiungete la vivacità e la grazia, alla sua franchezza cordiale un’ingenuità di linguaggio e di animo da far pensare che i capelli siano incipriati e che i leggeri segni impressi dagli anni sul viso ancora florido siano fatti per ingannare il mondo dal pennello di un miniatore e il ritratto sarà compiuto. Essa parlò subito dell’Italia, ricordando le accoglienze festose che vi ebbe suo marito, in special modo a Venezia. “Sapete” – disse – “che hanno illuminato la facciata dell’albergo e disegnato il suo nome sul terrazzo con i lumicini?” Raccontò in seguito di un signore gentile, che li aveva visitati a Napoli per esprimergli la sua ammirazione, senza dirgli chi fosse, e si era rivelato poi un arciduca austriaco mandandogli da Vienna una sua splendida opera storica. E diceva questo con un accento singolare di compiacenza e di meraviglia come farebbe la sposa di uno scrittore uscito appena dall’oscurità e annunciando le prime soddisfazioni inaspettate avute dalla fama di suo marito. E la stessa quasi inconsapevolezza della propria celebrità dimostrava Verne, che mi domandò improvvisamente:
“Sapete che i miei libri sono stati tradotti in molte lingue?” La signora mi comunicò anche la notizia che suo marito era da parecchi anni consigliere comunale di Amiens e che adempiva con molto zelo il suo ufficio. Ed egli pure ritornò più volte su questo argomento, mostrando quasi di parlare più volentieri di amministrazione che di letteratura. La signora, peraltro, manifestò il dubbio che egli fosse rieletto alle prossime elezioni, e avendole io domandato, con meraviglia, perché ne dubitasse, rispose a voce bassa, facendosi seria: “La marea democratica, caro signore; a monte, a monte partout.” Entrambi, poi, mi descrissero la tranquillità inalterata della loro vita di provinciali, che finì di rivelarmi il fondo della loro anima. Basti dire che da otto anni non erano più andati a Parigi né l’uno né l’altra. Il loro gran divertimento era di andare alla commedia o all’opera due volte la settimana e in quelle sere straordinarie, per far la festa compiuta, desinano insieme in un albergo di faccia al teatro come due sposi in viaggio di nozze. Le passeggiate igieniche, le poche visite, le faccende di casa, il lavoro letterario e la lettura, tutto fanno ogni giorno a quelle date ore precise, come osservando un regolamento. Chi avrebbe mai pensato che vivesse in quel modo colui che immaginò tanti casi meravigliosi, tanti strani personaggi dalla vita disordinata e turbolenta, trasvolanti come rondini di paese in paese, in cerca di avvenimenti imprevedibili e di commozioni tempestose?
Ma per fare conoscere tutta la bonarietà, la semplicità di animo di entrambi, e per dare un’idea della vita quieta e uguale che conducono, nella quale diventa oggetto di curiosità e di discorso ogni minima cosa insolita, devo accennare ad un piccolo episodio della nostra conversazione, graziosissimo, che farebbe ottimo effetto in una commedia come nota descrittiva di ambiente. Dopo avermi cortesemente rimproverato di non essere venuto da loro la mattina per fare colazione, mi domandarono in quale trattoria fossi andato. Non mi ricordavo il nome della trattoria né quello della strada.
“Vediamo: che strada prendeste uscendo dalla stazione?”. “Presi la tale strada, arrivai ad una piazza, svoltai a sinistra…” Allora mi nominarono varie trattorie, accennando l’insegna, la sala di entrata, qualche particolare di ciascuna; ma nessuna corrispondeva alla mia. “Eppure… una di queste deve essere; quale sarà mai?” E discussero fra di loro: poteva essere l’una, poteva essere l’altra; forse io non mi rammentavo bene di qualche cosa. “Siete ben certo di aver preso a sinistra?”. “Certissimo” risposi. “E quanto cammino avete fatto pressappoco?”. Risposi. Ricominciarono ad argomentare. “C’era di fronte una bottega così e così? Siete salito in una gran sala al primo piano, avete detto?” Sì ma era inutile, altri dati non combinavano, non si trovava. Si tormentavano l’immaginazione come sopra un rebus. Volevano trovare a qualunque costo. Forse non c’intendevamo sul punto di partenza. “Ma quella piazza da dove siete partito, com’era? Vi ricordate qualche particolare?” E la conversazione seguitò in questo modo, senza frutto, con loro visibile rammarico. “Oh infine” – disse Verne – “vedendola, la riconoscereste, non è vero?”. “Senza dubbio” risposi. “Ebbene, usciremo insieme, passeremo per quella strada e ce la indicherete”. “E così – soggiunse la signora – sarà chiarito questo mistero”. Ma l’accento di bontà con cui dissero tutto questo non lo so esprimere: parevano un padre e una madre quando interrogano il figlio su tutti i particolari del suo primo viaggio per rivivere con lui tutti i momenti che egli ha vissuto lontano. Un mese di convivenza con loro non mi avrebbe fatto entrare così addentro nel loro animo, non mi avrebbe così affettuosamente legato a loro come fece quella breve conversazione, della quale sorridevo, ascoltandola, ma con le labbra contratte dalla commozione.
Jules Verne volle che vedessimo tutta la casa. Salimmo al primo piano. Vi era da per tutto un’eleganza severa e semplice; in nessuna parte il lusso che potrebbe ostentare l’autore dei Viaggi Straordinari, al quale fruttarono la ricchezza soltanto i suoi diritti d’autore sui drammi spettacolari ricavati da tre dei suoi romanzi. Curiosa la sua stanza di studio: di studio e da letto ad un tempo; piccolissima, una specie di camerino da comandante di bastimento. In un angolo, di contro ad una grande finestra, vi era un gran tavolo da lavoro, col tappeto verde, coperto di libri e di carte, disposti in ordine simmetrico; all’angolo opposto un piccolo letto da campo, stretto e bassissimo, senza parato né guarnizioni, che parrebbe modesto ad uno studente. Su questa specie di branda soldatesca dorme Jules Verne, non so da quanti anni, da poco dopo il tramonto alle prime ore del giorno, d’inverno come d’estate. La stanza, piena di sole, da sopra un grande viale solitario, di là dal quale si vedono le guglie della cattedrale famosa. C’erano sul tavolo alcuni manoscritti che osservai curiosamente: fogli coperti di righe fitte, di un carattere minuto, ma regolare e fermo, con pochissime correzioni; poiché, dopo aver preparato il lavoro con molta diligenza, pensandoci a lungo, egli scrive rapidamente. Là mi trattenni qualche minuto, mentre i miei figliuoli entravano con Verne nella libreria, e la signora colse l’occasione per farmi a voce bassa, con il suo modo ingenuamente amichevole, una raccomandazione che mi commosse. “Veda un po’ lei, signore di persuadere mio marito ad aver più cura della sua salute. Lavora troppo. È sempre, sempre là al tavolino. Temo che si faccia del male. Non vivo tranquilla”. E da lei seppi che la salute di Jules Verne era stata un po’ scossa, anni addietro, da un fatto triste che io ignoravo: un suo nipote, impazzito, lo aveva assalito senza una ragione al mondo e ferito alla gamba con un colpo di pistola, per cui era stato malato lungo tempo. Fu anzi dopo quel caso, mi pare che abbia aggiunto, che egli vendette il grazioso yacht con il quale era venuto in Italia, pensando che la necessità di una vita riposata non gli avrebbe più concesso di fare altri viaggi di mare.
Nella sala accanto, ampia e chiara, vi era una ricca collezione di libri di viaggi, di opere di scienza e di carte geografiche. In uno scaffale sono raccolte le traduzioni dei libri di Verne, centinaia di volumi in tutti i formati e in tutte le lingue; non nelle europee solamente, poiché, fra le altre, egli ci fece vedere una traduzione araba e una giapponese. Poi ci condusse davanti ad un’altra libreria, dove ci mostrò la raccolta di tutte le sue opere in francese. “Ottanta volumi”, disse con un sorriso, scrollando il capo, come avrebbe detto: “Ottant’anni!” Erano disposti per ordine di data, occupavano tutti un lungo scaffale, formando una sola schiera multicolore, luccicante, gloriosa come una fila di bandiere. Quanti ricordi mi balenarono alla vista di tutti quei libri letti con tanto piacere nella prima giovinezza e ricercati tante volte nell’età matura, per ricreare la mente stanca o l’animo triste! Quanti cari ricordi di disegni di viaggi, di vasti e strani sogni fatti ad occhi aperti dopo la lettura, di visioni immense di foreste, di deserti e di oceani, di montagne di ghiaccio e di montagne di fuoco, e di misteriose solitudini interplanetarie e di abissi spaventevoli del mare e della terra e di cataclismi meravigliosi e formidabili! Mi risuonarono tutti insieme nella mente i nomi di Nemo, di Hatteras, di Grant, di Strogoff, di Robur, di Krutis, dei personaggi arcani e terribili, inventori di macchine prodigiose e scopritori di mondi ignoti, vittime ed eroi delle lotte gigantesche con la natura; e vidi dietro di loro la schiera dei tipi stravaganti, delle figure comiche, degli originali arguti e piacevoli di tutti i paesi, da Ardan a Paganel, da Keraban a Gambalesta e al filosofo cinese delle Tribolazioni, che mi avevano strappato tante buone risate giovanili; e poi la folla innumerevole dei personaggi minori di ogni condizione e di ogni razza, tutti segnati da una pennellata color di rosa, condotti tutti, per le vie della terra, del mare e del cielo e tra le viscere del globo e nelle profondità sottomarine e per gli spazi eterei, a traverso a mille avventure tragiche, fantastiche e amene, ad un lieto fine; ma con un’arte facile e amabile, colorita di un raggio mite di poesia, che lascia nell’animo un sentimento sano della vita, un ardore di moto e di lavoro, un amore studioso della natura e l’ammirazione della scienza combattente e intrepida e un concetto alto e consolante dei destini dell’uomo. E tutto questo ricordando, mi stupivo che fosse uscito dalla mente di quell’uomo così quieto e semplice, da una vita così compassata, da un linguaggio così placido e uguale, e pensando alla popolarità straordinaria di quegli ottanta volumi diffusi per il mondo, di quelle migliaia di creature della sua fantasia impresse in milioni di menti come persone vive e familiari, mi parve anche più ammirabile e amabile la semplicità con cui egli rispose all’espressione del mio pensiero: “Perché, vedete, codesta gran diffusione è dovuta in gran parte a questo che, nello scrivere, mi sono sempre proposto, anche sacrificando l’arte, di non lasciarmi mai sfuggire in una pagina una frase che non potessero leggere i ragazzi, per i quali ho scritto… e che amo”.
Gli domandai un ritratto, sul quale egli scrisse, come direbbe quel mio amico di Torino, lo pseudonimo della società cooperativa che fece le sue opere. La signora gli osservò che aveva dimenticato la data, ed io pregai lei di scriverla, per avere anche il suo autografo; del che essa rise, non comprendendo che l’avevo detto sul serio; ma scrisse, continuando a ridere. Poi uscimmo tutti insieme, e da quel momento Jules Verne non fu più che il consigliere comunale di Amiens. Dopo avermi fatto visitare, vicino a casa sua, un circo equestre di proprietà municipale, che serve pure a adunanze e a feste pubbliche, mi diede molte notizie dei lavori edilizi, delle scuole e della demografia cittadina, interpolate di domande intorno alle amministrazioni comunali d’Italia, e mi parve che gli facesse piacere nel sentire che egli parlava ad un consigliere in vacanza della città di Torino; tanto che mi guardai bene dal dirgli che le mie vacanze erano perpetue. Ci dirigemmo verso il centro della città. Essendo domenica, incontravamo molta gente. La signora Verne si soffermava di tanto in tanto a scambiare qualche parola con signore di sua conoscenza, che le facevano festa, meravigliandosi di vederla fuor di casa ad un’ora insolita, e ne rideva essa pure, con la giocondità di un’educanda in permesso straordinario; e poi ci raggiungeva correndo. E quando restava un po’ in disparte con me, mi ripeteva in fretta la raccomandazione di poco prima, e mi diceva delle rare doti di cuore di suo marito, insistendo, come se dubitasse che io non le avessi intuite. “Se sapesse com’è buono e generoso Jules Verne!”. ” Lo so” – risposi – “e vedo che tutti lo sanno”. Infatti, quanti incontravamo, uomini e fanciulli di ogni condizione, lo salutavano con reverenza benché ci fosse forse tra loro più di un elettore che, salutando, distingueva nella sua coscienza lo scrittore dal consigliere. Andammo al palazzo municipale, poiché la cattedrale l’avevo già vista, e lì il Verne ci fece visitare il museo di pittura, dove, da consigliere coscienzioso, prese nota di un’osservazione dubitativa che io feci su un verso di Dante iscritto ai piedi di un bel quadro moderno; dopo di che ci condusse a vedere la sala delle sedute e ci raccontò la storia del palazzo con molti particolari amministrativi e politici. Infine, quando uscimmo, dissero tutti e due quasi ad un tempo, con l’aria di chi ricorda una curiosità da soddisfare: “Ora bisogna che andiamo a vedere quella benedetta trattoria”. E ci mettemmo al viaggio di scoperta.
Quando mi fermai in mezzo alla strada dicendo: “qui” si guardarono in viso meravigliati. “Tiens, tiens… Ma la prima trattoria che vi avevamo nominata!” mi dissero. “Si vede che non ci siamo intesi sulla topografia. Basta, l’abbiamo ritrovata, il problema è risolto. Ora bisogna festeggiare il ritrovamento” soggiunse Verne e volle che vi entrassimo a bere una birra. Egli non prese che un sorso, secondo la sua regola; ma la signora bevette tutto il bicchiere, parlando e scherzando con una giovialità da ragazza. “Sapete” – mi disse – “che erano quattro o cinque anni che non venivo più al caffè? Qui le signore non usano di andarvi. È un avvenimento per me… ”E poiché stava seduta davanti ad una gran finestra che dava sulla strada, e qualcuno ogni tanto, passando sul marciapiedi e riconoscendola, faceva un atto di meraviglia e una scappellata, essa ne rideva di cuore, e diceva al marito: “È passato il tale, il tal altro. Etait-il tonn de me voir au cafè!” E Verne stesso pareva che si divertisse della sua allegrezza giovanile, benché dalla sua bocca non uscisse mai uno scherzo, come non erano usciti fino allora, non un’espressione di ilarità che fosse più di un breve sorriso benevolo, non un indizio di quella fresca vena di comicità che scorre così largamente in tanti dei suoi libri. Ma come appariva meglio il suo animo in quella gentilezza senz’arte, che era tutta negli occhi e nella voce, in quella benevolenza che taceva, ma che si vedeva pensare! E io li guardavo entrambi, e seguiva in me quello che segue qualche volta in tutti, di credere di rivivere con tutte le circostanze identiche un momento del tempo passato: mi pareva, ed era un’illusione così viva che ne provavo stupore, di essere stato altre volte ad Amiens, di essere già venuto in quel caffè con Jules Verne e con sua moglie, di conoscerli di persona da molti anni, di essere vissuto lungo tempo in quella casa tranquilla, nella loro dolce e cara compagnia, come un vecchio amico, cui nulla rimanesse più da conoscere del loro cuore e della loro vita.
E io dissi loro sotto la tettoia della stazione, dove ebbero la bontà di accompagnarci: dissi con che animo li lasciavo e che ricordo avrei portato in cuore di quel giorno; e certo lo dissi con quell’accento che l’arte non trova perché vidi inumiditi i loro occhi buoni e sorridenti, ed io e i miei figliuoli sentimmo nel loro abbraccio tutto quello che mettevamo nel nostro. E quelle due care immagini ci stettero davanti finché ci riscossero come da un bel sogno i mille lumi e il frastuono della Stazione Nord di Parigi.
Edmondo de Amicis