Il vero problema della fantascienza classica sono i viaggi. Muoversi rapidamente tra i pianeti del Sistema Solare, e poi tra stelle e galassie, non è per niente facile coi nostri mezzi, e neppure con la fantasia. Ai tempi di Jules Verne si pensava a un cannone, che in quel momento era l’arma di punta anche nelle guerre. Era il cannone che tuonava e lanciava proiettili giganteschi a decine di chilometri oltre la frontiera. Allora facciamone uno gigantesco, carichiamolo con tonnellate di esplosivo, puntiamolo verso il cielo, spariamo. Lo scopo? quello di far superare al proiettile la “velocità di fuga” dalla Terra. Al di sotto di quella velocità qualunque oggetto lanciato in aria ricade fatalmente al suolo. È l’attrazione di gravità, baby. Da qui nasce il famoso detto “sputare in cielo”. Nel 1850 si conosceva bene il valore di questa velocità: 11,2Km/sec, che suona meglio espresso in chilometri all’ora: 40.320. Oltre quarantamila chilometri all’ora, è questa la velocità iniziale che deve avere qualunque oggetto per potersi liberare dell’attrazione gravitazionale e allontanarsi dalla Terra. Insomma si poteva concludere: siamo prigionieri.
Solo la fantascienza poteva aiutarci un po’. Dalla Terra alla Luna, il famoso libro di Verne, fornisce le misure di un cannone adatto per sparare un grosso obice fuori dalla Terra. Per giunta con passeggeri. Il brutto di un cannone è che fornisce tutta la spinta in un colpo solo, e solo durante l’attraversamento della canna. Una volta emesso dalla bocca il proiettile prosegue per inerzia, quindi quei famosi quarantamila chilometri all’ora vanno raggiunti nel breve tratto tra il fondo e la bocca del cannone. Immaginatevi l’accelerazione. Certo Verne pensò a un cannone molto lungo, realizzato scavando un pozzo profondissimo nel sottosuolo. Mettiamo anche cento, duecento metri. Raggiungere in duecento metri la velocità di 40.000 km/h significa subire un’accelerazione di oltre trecento volte l’accelerazione di gravità (300g). Già quattro-cinque g sono difficili da sopportare per una persona non allenata, fino a dieci con delle speciali tute. Con trecento g semplicemente ti disintegri. Figuriamoci i tre signori dell’Ottocento, in abito e cilindro, seduti nelle loro poltrone dentro un obice sparato con quella sberla di cannonata. Per la cronaca, muore solo il cane. E dopo brindano al successo della missione, senza avere la più pallida idea di dove sono stati scagliati. Verso la Luna, secondo i calcoli fatti su un pezzetto di carta dallo scienziato di un osservatorio astronomico.
Ma perché non si pensava alla propulsione a razzo? I razzi esistevano già da tempo e venivano usati per scopi giocosi (fuochi artificiali) e naturalmente per la guerra (razzi incendiari). Esisteva anche la fisica che ne spiegava bene il funzionamento (la legge di azione e reazione di Newton). Eppure la maggior parte della comunità scientifica era convinta che un motore a razzo potesse muoversi solo se spingeva contro qualcosa, per esempio l’aria. Dunque nel vuoto non avrebbe potuto funzionare. Sbagliato. Il principio di reazione, pilastro della navigazione spaziale, spiega bene che un veicolo si muove a causa della spinta che subisce dai gas del motore. Un visionario che se ne rese conto fu Konstantin Tsiolkovsky (1857-1935), un insegnante russo che cercò entusiasticamente di promuovere il volo spaziale e scrisse dei libri sull’argomento, molto prima che l’idea fosse presa in seria considerazione. Un motto che gli si attribuisce è: “La Terra è stata la nostra culla. Questo non significa che debba essere anche la nostra tomba”. Il vero padre della missilistica però fu l’americano Robert Goddard col suo brevetto del 1914. Un vero missile, piccolo ma funzionante. Poi arrivarono tutti gli altri, fino a Wernher Von Braun, l’uomo che porterà gli americani sulla Luna, dopo aver cercato di distruggere Londra con i missili nazisti V2. Che storia. Ma torniamo alla fantascienza.
Dunque, cannoni per tutto l’Ottocento. Sono cannoni anche quelli che sparano capsule piene di marziani nello storico attacco alla Terra della Guerra dei Mondi di H. G. Welles. Lo scrittore era rimasto impressionato dalla lettura dei resoconti degli astronomi, che con i potenti telescopi di allora (fine Ottocento), avevano visto distintamente i segni di una vita intelligente su Marte, comprese delle opere di irrigazione che dovevano servire a distribuire l’acqua ormai scarsa sul pianeta. Chissà come dovevano essere invidiosi i marziani guardando a loro volta la Terra: tutta quell’acqua, quelle nuvole, quel verde delle terre coltivate. Ecco il motivo dell’invasione, che poi purtroppo (ma per fortuna per noi) finirà male.
C’è anche un altro modo per viaggiare, ed è quello piuttosto spirituale inventato da uno scrittore australiano. Gli uomini e le donne che lo meritano hanno una doppia vita: una sulla Terra, l’altra su Marte. Spesso sono inconsapevoli di ciò, a parte qualche strano sogno, ma alcuni di loro acquistano la coscienza di questa doppia vita, fanno i relativi confronti e si comportano di conseguenza. Nel romanzo Melbourne and Mars di Joseph Fraser il protagonista vive una vita difficile sulla Terra, dove regna l’egoismo, i cattivi sentimenti, il lavoro sottopagato, le guerre, gli animali feroci e pericolosi. Detto fra noi, la vita per i coloni australiani a metà Ottocento doveva essere durissima. La sua anima però si installa anche in un giovane marziano, e comincia a vivere una vita dolce su un pianeta utopistico dove tutto va bene. Certo con l’anima non servono né cannoni né razzi: ci si muove da un pianeta all’altro con velocità infinita. In realtà l’idea che le anime dei defunti migrino su un altro mondo è piuttosto vecchia. Forse non si può neppure parlare di fantascienza.
Se con i razzi abbiamo imparato a muoverci nello spazio, seppur goffamente, presto ci accorgiamo che anche questi mezzi non servono a molto se vogliamo effettuare viaggi interstellari o peggio intergalattici. Come fare per coprire distanze che la stessa luce impiega anni o secoli ad attraversare? Niente paura, ecco che torna utile la fantascienza. Nella nota serie Star Trek le astronavi sono equipaggiate con i famosi motori a curvatura. Lo dice la parola stessa: questi motori sfruttano la curvatura dello spazio-tempo accentuandola mediante potenti campi elettromagnetici. Un po’ come viaggiare attraverso un foglio di carta pieghettato saltando tra una piega e l’altra anziché percorrerne tutta la superficie. Il risultato è una velocità molto superiore a quella della luce, ma solo apparentemente. In questo modo le astronavi possono trasportare gli equipaggi qui e là in vari punti della galassia, dove incontrano varie razze di similuomini con i quali svolgono commerci, alleanze, guerre eccetera. Proprio come i diversi popoli sulla Terra. Tra l’altro, la questione dei motori a curvatura non è totalmente fuori dalla fisica: ci sono alcuni ricercatori che la stanno studiando seriamente, insieme ad altre tecniche più o meno simili, come quella dei cosiddetti worm-holes che permetterebbero l’attraversamento delle pieghe spazio-temporali mediante dei varchi (vedi film Interstellar).
Il problema è, se vogliamo fare un piccolo appunto agli sceneggiatori, la comunicazione. Come fare per comunicare a quelle distanze? La radio ovviamente non serve, dato che si basa sulle onde elettromagnetiche che viaggiano alla velocità della luce. Per comunicare via radio con Alfa Centauri, che dista solo poco più di quattro anni luce, servono appunto quattro anni (andata) più altri quattro (ritorno). È questo il mezzo di comunicazione più rapido che abbiamo. Su questo problema gli sceneggiatori di Star Trek e di altre serie fantascientifiche sorvolano, e ci fanno vedere delle ottime comunicazioni in videoconferenza tra punti distantissimi della galassia. Ma di questo parliamo in un altro articolo.